Ettore racconta dei barconi, delle pietre… Ettore el conta dei barcoo, dele pree…

Barche quando erano il mezzo di trasporto sul Garda.

Garda autore : Carlo Gaioni Data pubbl.30-10-2018

 Articolo tratto dal libro di Carlo Gaioni : Questa è la mia terra - Volume 2

Un tempo il lago di Garda pareva la strada gardesana dei giorni nostri d’estate: barchette, barche, barche da carico, barche per i passeggeri (durante la guerra), che portavano la gente a lavorare nella bresciana, barconi a vela e a motore di varie dimensioni, per trasportare in vari punti del lago le pietre, ma anche altri materiali.

I barconi potevano trasportare da 200 fino a 700 quintali di peso e solcavano il lago in lungo e in largo, secondo il luogo di destinazione.

Si ricorda ancora il nome di alcuni barconi e i loro paesi di appartenenza, tenendo presente che molte barche, nel corso della loro vita, hanno cambiato padrone e di conseguenza anche il paese di origine.

Siccome le barche erano tante e la memoria dei miei testimoni può anche tradire, chiediamo scusa ai lettori per eventuali inesattezze.

A Riva c’era la Miriam; a Navene il Vaticano; a Malcesine c’erano la Sant’Angela Merici, la Cesarina, la Triestina, l’Artemise, la Mafalda, la Gabriella e la Genova; a Cassone c’era la Santa Lucia; a Porto, “vivevano” l’Adua e la Rosetta; a Castelletto la Veronica, l’Antonietta, la Firenze, la Venezia e una barca più piccola, la Derna.

Quest’ultima non era usata per trasportare le pietre e poteva caricare solo un centinaio di quintali di peso, stessa situazione per un’altra barca, “el Caicio”, che poi diede il “soranom” (soprannome) alla famiglia del proprietario, Angelo Fravezzi, detto “Angel Bel”.

Sempre a Castelletto, Paolo Fravezzi (figlio del Brasca) rammenta che attorno al 1915 il suo nonno paterno era in possesso di una barca di medie dimensioni, di nome Serpentina.

Giacomo Fravezzi, detto “Brasca”, nonché padre di Paolo, per ricordare il vecchio barcone del padre, costruì a sua volta un “barchet” e lo chiamò con lo stesso nome: Serpentina.

La sorella di Paolo ricorda con emozione quando suo padre la invitò a disegnare con le mani questo nome sulla fiancata della piccola barca.

A Torri c’erano la Celestina e la Ines. Garda aveva la Vittoria, la Sant’Emilia e la Garda, quest’ultima mitragliata e affondata nei pressi di Bogliaco, dove morì uno dei due conduttori, Piero Mafezzoli.

A Bardolino operava la San Nicolò e c’era anche l’Eritrea sul lago di Garda, ma certamente non conosciamo il nome di altri barconi presenti.

Mi soffermo a raccontare l’attività principale, cioè il trasporto delle pietre dalle nostre “preère” ai paesi che ne facevano richiesta, per costruire moli, sponde, camminamenti, slarghi, piazze, lungolaghi e altro. Ma più che i paesi, a richiedere le pietre era il Genio Civile, che organizzava e finanziava le grandi e piccole opere idrauliche sul lago di Garda, ragione per cui possiamo dire che questi lavori erano pagati dal Governo Italiano.

La “preèra” più consistente della nostra zona non apparteneva al comune di Brenzone, ma a quello di Malcesine: si trattava della cava di pietre di Val di Sogno, “la preèra de Valdasogn”.

I nostri sassi si trovano in prevalenza a Peschiera e sul lungolago di Desenzano; sono serviti per costruire il porto di Manerba, sono stati portati a Bogliaco, a Pacengo e in altre località del lago.

Esistevano, poi, cave di sassi che servivano per costruire muri di sostegno, muri di cinta o muri per le case; quella di Castelletto, in località “Salt”, aveva i sassi con la vena adatta alla realizzazione delle abitazioni. Come abbiamo già detto, il carico delle pietre sui barconi avveniva tramite dei carrioloni, fino ad un peso di tre quintali. Se il peso del materiale era superiore, si ricorreva ad un carretto molto robusto, con un lungo manico per dirigerlo. Il barcone era dotato di un ripiano di legno, per ospitare i blocchi di sasso più grossi, mentre nella stiva finivano le pezzature più piccole.

Bisogna ricordare che, per garantire la stabilità della barca ed evitare il ribaltamento, una certa quantità di sassi doveva essere sempre presente nella stiva (fino a cinquanta quintali).

I massi più grossi, destinati a costruire il lungolago, erano posti vicino ai bordi del barcone per uno scarico più agevole.

Ci si aiutava poi con legni, con pali di ferro e talvolta anche con le mani nude: si facevano rotolare i sassi su se stessi, fino alla caduta in acqua nel luogo dove servivano.

Dopo aver alleggerito un lato, avvalendosi di due grosse pertiche, la barca veniva spinta a mano e fatta ruotare su se stessa, per scaricare i sassi del lato opposto, sempre nella medesima posizione.

Queste pertiche servivano anche durante le fasi di carico, quando il lago era agitato: si usavano come puntelli impiantati sul fondale e fissati ai bordi della barca, per tenerla ferma il più possibile.

Solitamente le pietre più piccole, poste nella stiva, venivano scaricate da quattro uomini: in due si mettevano sotto e con le mani porgevano ai due sopra le pietre da scaricare.

Se però il personale scarseggiava, erano i due conducenti che provvedevano allo svuotamento: i più svelti rimuovevano il carico in un paio d’ore.  Per lo scarico delle pietre destinate alla costruzione di abitazioni, occorrevano molte persone e si usava il metodo del passamano per trasbordare il materiale dalla barca al camion. Il camion quindi era il mezzo privilegiato per portare il materiale alla destinazione finale, seguivano i motocarri e, prima ancora, i carretti, che servivano per portare le pietre nei pressi della casa da costruire.

Questa foto ritrae “el Caicio”, barca di proprietà di Angelo Fravezzi, detto “Angel Bel”.

La Diana, che giace in fondo al lago nei pressi di Castelletto.

Ettore Brighenti, responsabile della conduzione di grossi barconi per trasportare materiali di tutti i generi, ma principalmente di pietre

 

Ettore nel porto di Malcesine in compagnia di Guido Boschelli.

Talvolta, a causa del lago in burrasca, l’attività di trasporto restava bloccata per qualche giorno e il materiale nella preèra si accatastava; tornata la bonaccia, si doveva accelerare per recuperare il tempo perso: in questo caso si potevano realizzare anche quattro carichi in un giorno, tutto in funzione delle barche e della forza lavoro a disposizione. L’attività di estrazione delle pietre era completamente scollegata dal trasporto delle stesse; i proprietari dei barconi, con tutto il personale occorrente, non erano nient’altro che dei corrieri trasportatori che guadagnavano un tot a quintale.

Nel caso di Castelletto esisteva un imprenditore, “el Bepi Giò”, (Giuseppe Vernesoni) che organizzava tutto, sia il lavoro delle cave di pietra, sia il trasporto. Era lui che pagava un tanto l’ora gli operai della “preèra” ed era sempre lui che pagava i proprietari delle barche un tanto a quintale per il trasporto.

I conducenti, invece, venivano pagati dai proprietari delle barche un tanto a viaggio.

Ovviamente non era possibile pesare le pietre con una bilancia.

Era il volume occupato e la linea di galleggiamento della barca a testimoniare, quintale più quintale meno, il peso del carico; sulla fiancata, infatti, erano disegnate in verticale delle tacche, come un metro, che consentivano, in base al livello d’immersione, di stabilire quanto peso ci fosse a bordo della barca stessa. Il comando di queste barche cariche di sassi era affidato a due persone: uno era responsabile del timone e l’altro delle vele, entrambi esperti e intercambiabili nei loro ruoli. Le condizioni e la forza del vento determinavano la durata del viaggio; talvolta accadeva che ci fosse totale assenza di aria e in quel caso i due conducenti dovevano mettere mano ai remi.

Ogni barcone era dotato di una scialuppa di salvataggio, da usare in situazioni di emergenza, e qualcuno era dotato anche di un motore, da usare in alternativa alle vele o in aggiunta ad esse.

Ettore Brighenti, mio prezioso testimone per la ricostruzione di questa storia, mi fa presente che, a poche centinaia di metri dal porto di Castelletto, in fondo al lago c’è tuttora una barca di nome Diana.

Questa barca è affondata per lo sbilanciamento del peso: per un refolo improvviso di vento, la vela si spostò e urtò contro un masso che, spostandosi a sua volta, fece perdere l’equilibrio alla barca e ne causò l’affondamento. La barca era condotta da Alessandro e Piero Zecchini detti Bongioani, due fratelli che, al momento del fatto, con l’aiuto della “barchetta” (piccola scialuppa), riuscirono a mettersi in salvo. Un nostro paesano, “el Bepi Posa”, che lavorava per l’impresa Catalani e svolgeva la professione di palombaro, collaborava nel dopoguerra al recupero dei residuati bellici che la guerra aveva lasciato dentro il lago. Munito dell’attrezzatura necessaria, ebbe la ventura di scendere fino alla barca ancora carica di sassi, di sedersi sopra “al’erbol” (albero maestro) e di testimoniare che questa era rimasta intatta.

Al giorno d’oggi, i vecchi pescatori di Brenzone, compresa tutta la gente che ha tribolato nelle “preère” e sopra i barconi, avrebbero un desiderio da realizzare: tentare il recupero di questa barca.

Sembra un sogno, ma qualcuno potrebbe farlo diventare realtà.

La prua della Diana in fondo al lago (Foto g. Arena).